domenica 30 ottobre 2022

UNA LETTERA MAI DATA

 


27 Ottobre 2022

Ciao Amore mio, è finito il giorno più importante della tua vita e parallelamente il giorno più desiderato per l'orgoglio di un padre. Grazie.

Sei sempre stato il pensiero più importante, il tesoro da proteggere e allo stesso tempo, un giorno, il figlio da lasciare andare. Questi sono stati i motivi che mi hanno portato a progettare, finche ne ho avuto la possibilità, un percorso di studi come la scuola germanica e un corollario di esperienze di vita autonoma che ti potessero formare e rendere sicuro da adulto.

Oggi posso ritenermi soddisfatto e fiero delle mie scelte e orgoglioso di questo tuo percorso universitario fantastico, da vero Rivoluzionario. Si aprono adesso nuovi orizzonti di grande respiro, cogli le opportunità che ti faranno essere felice e gratificato, un passo indietro ci sarò io, pronto sempre ad ascoltarti e, se vorrai, consigliarti.

Un forte abbraccio, con amore

Papà

mercoledì 17 novembre 2021

Tramontare a un figlio


C’è una pagina precisa in cui lo Svedese, gigante buono, uomo giusto, padre affettuoso di una figlia diventata mostro, terrorista invasata e assassina, capisce di non essere bastato e si arrende. “Le ho dato tutto quello che potevo, tutto, tutto, le ho dato tutto. Ti giuro che le ho dato tutto”, e piange con il fratello al telefono, piange come non avesse altro scopo nella vita che quel pianto. In “Pastorale Americana”, di Philip Roth, la vita perfetta di un uomo perfetto, americano ottimista dalle migliori intenzioni, viene sfregiata e scoperchiata dall’enorme, tragico fallimento di padre: non ha saputo vedere, accompagnare, non è riuscito a far diventare sua figlia l’immagine perfezionata di se stesso. Gli sembrava giusto e naturale, un’unica strada diritta e illuminata, ma non è andata così. Colpa sua? Colpa delle cose insensate che accadono? Colpa del Vietnam? Colpa di quel bisogno di uccidere il padre, anche, di sputare addosso a una strada con le luci, a un’eredità morale che a un certo punto sembra pesante, ridicola, sbagliata, mostruosa perfino. Bisogno di gettare via le cose, disprezzare i pensieri, le aspettative ricevute, trovare il colpevole di quello che non va: eri mio padre, hai sbagliato tutto, non hai visto niente. Come le formiche, che vedono solo i pochi centimetri di mondo che hanno davanti, così i padri devono prendersi sulle spalle la colpa di essersi distratti, non avere voluto guardare la verità dei figli e del futuro. Eri mio padre, e non hai capito che odiavo leggere il Financial Times con te a dodici anni, che non volevo andare a Bristol sette estati di fila a imparare l’inglese, che il dottorato a Stanford era per te, non per me, pensa il protagonista dell’ultimo romanzo di Paola Mastrocola, “Non so niente di te” (Einaudi), ventenne del nuovo Millennio, che quindi non ha più intenzione di uccidere il padre, non ha nessun complesso di Edipo ma ha bisogno di una via di fuga, vuole scendere da una vita che hanno apparecchiato per lui, certi che fosse la migliore, la più libera e moderna e appagante (con le migliori intenzioni, come lo Svedese di Philip Roth, agisce questo padre avvocato e fiero, con incrollabile fiducia nelle borse di cuoio e nei giornali economici, a sua volta perfezionamento dell’immagine del proprio padre, fiero notaio): “Un figlio che non continua il padre spezza una linea. La rompe. E’ un elemento di rottura, un figlio così, si può dire? L’ho pensato spesso. Ma adesso non lo penso più. Adesso che mi sono portato dietro queste pecore lo so, e vorrei tanto dirtelo, papà, rassicurarti: quella linea spezzata continua, solo che continua da un’altra parte, in un altro modo”. Le linee vanno spezzate, a un certo punto, o comunque curvate, bisogna farle scartare di lato, anche per permettere a un padre di sentirsi padre, e non corteggiatore, amico, specchio, guardia del corpo, bozzolo che risparmi al figlio il dolore di esistere. “Non la volevo, io, una vita come la tua”, è una frase dolorosa da ascoltare, per un padre, ma utile a riportare un po’ d’ordine, a dividere il mondo in due: non siamo nemici, ma siamo due persone diverse, abitiamo due diverse colline, e uno guarda verso il sole che sorge e per un po’ ha bisogno di dare le spalle all’altro (e anche pensare: che razza di stronzate), l’altro deve restare a guardare e aspettare (anche pensando: che razza di stronzetto). Padri e figli: a uno il compito di indicare una strada e anche, scrive lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati in quest’ultimo libro Feltrinelli, “Il complesso di Telemaco, genitori e figli dopo il tramonto del padre”, il dovere di unire il desiderio e la legge, e ai figli il compito di entrare in conflitto o accettare l’eredità del padre, magari non subito, magari accettarla dopo il conflitto, anche senza accorgersene. Succede, di dire: mai come mio padre, e poi un mattino ritrovarsi a leggere le cartine geografiche come le legge lui, o mettere i tappi a tutte le penne e finire l’acqua lasciata nei bicchieri dai figli, invece di buttarla, e urlare, con il senso di un’offesa morale: non si lascia l’acqua nei bicchieri, non si lasciano le penne senza tappo.

Telemaco guarda il mare, scrive Recalcati, sperando che torni a Itaca Ulisse, il padre, a ristabilire la legge, e non lo aspetta come un rivale da uccidere ma come una speranza per il futuro: dopo anni di evaporazione dei padri, i figli aspettano di nuovo il ritorno di una Legge, di un padre, un adulto e non un adolescente e intanto cercano di inventarsi un avvenire. Un adulto che sappia prendersi cura, trasmettere un desiderio e dire anche: va bene, adesso appoggiati qui, ma la strada è la tua, e tra poco il mondo sarà tuo, io saprò farmi da parte, tocca a te figlio, non starò per sempre a mettere i tappi alle tue penne. Secondo Recalcati sono stati i padri, spesso, a uccidere i figli, a trasformarli in lamentosi prigionieri di un’immensa libertà. “I padri non lasciano il posto, non sanno tramontare”.

“Noi siamo la prima generazione di padri nella storia ad avere elaborato una complessa ed altamente egoistica strategia di sopravvivenza attraverso la captatio benevolentiae dei nostri figli – ha scritto Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera, nel suo pamphlet Rizzoli, ‘Contro i papà’ – Fingiamo di farlo per il loro bene, ma in realtà lo facciamo per il nostro. Li teniamo attaccati a noi, dipendenti da noi, per evitare che si ribellino”. I padri (e le madri) costruiscono un bozzolo di seta di possibilità, giustificazioni, desideri esauditi, camicie stirate e spostano il fuoco: poiché non vogliono mai in nessun caso diventare nemici, aiutano i figli a trovare un nemico (Polito ha scritto anche che i padri sono diventati i sindacalisti dei loro figli). La politica, il precariato, la disoccupazione, la società ingiusta. Che sollievo avere dei figli che non odiano il padre ma solo il mondo intero! I padri sono ancora seduttori, morirebbero se non lo fossero, disperatamente giovani (nel senso di disperatamente tesi verso la giovinezza), young adult persi dentro ai fatti loro, che cancellano il senso di colpa cercando di provvedere al meglio ai bisogni dei figli, per evitare che provino rabbia da mancanza di cose e la imputino al padre. I padri sono così desiderosi di piacere ai loro figli che non possono sopportare l’idea di provocare in loro un’arrabbiatura, passare in un istante dall’immagine di adorabile papino a quella di solito vecchio stronzo (che pure è un’idea di padre molto rivalutata: gli psicanalisti dicono che molte delle sofferenze dei pazienti sono dovute proprio a quest’assenza). “Non la volevo, io, una vita come la tua”, è una pugnalata al cuore, ma soprattutto un attentato alla vanità, per un padre che ha corteggiato i suoi figli, raccontato favole di notte, mostrato grande modernità e attitudine alla tecnologia, cercato e pagato le scuole migliori, maledetto i professori, regalato la luna e risolto i problemi. Anche scelto di fare il padre stay-at-home (non qui, non esageriamo: in Inghilterra) e rivendicare quell’eroismo, abnegazione e cura che di solito spetta alle madri. E’ entrato in competizione con le madri per l’amore dei figli, le ha scavalcate in dolcezza e lasagne al forno. Ma allora perché Recalcati (con lui anche Claudio Risé e Eugenio Scalfari) parla di evaporazione del padre, di Telemaco in attesa davanti al mare, quando i padri non sono mai stati così attenti, vicini, condividenti, carezzevoli, sbaciucchianti, amorosi, presenti perfino alle riunioni con i professori e alle lezioni di nuoto? Perché si sono confusi con i figli. Fanno scambio di generazioni, “nell’epoca in cui tutto appare uguale a tutto”, sono angosciati e smarriti (gli insegnanti confidano, umiliati, che la confusione peggiore la fanno i genitori, i pediatri ripetono e scrivono sui blog che sono stanchi delle domande cretine e angosciate dei padri): non sanno lasciare andare i figli, li considerano un’estensione di sé e vogliono vivere anche la loro vita, con la scusa disordinata di spianare il terreno e risparmiare viaggi dolorosi nella realtà, ma con la segreta voglia di continuare a essere vivi, specchiandosi nelle possibilità della giovinezza e credendo di conoscerne già tutte le ombre e le vertigini e di poterle guidare verso porti sicuri. “Forse è proprio questo, papà – dice Filippo, il protagonista del romanzo di Paola Mastrocola – Dovreste essere curiosi, molto curiosi dei vostri figli. Morire dalla curiosità di vedere come andrà a finire. Invece siete sempre così scontenti, così incontentabili. Sembra che conosciate già tutto. Non vi lasciate sorprendere. Peccato”. I padri non possono sapere granché e sono incontentabili, perché sentono la mancanza di desiderio di figli sazi attorno ai quali la famiglia si modella e balla, ma hanno paura delle sorprese, almeno quanta ne aveva lo Svedese, l’uomo perfetto e vitaminico, il sogno americano, di trovarsi di fronte all’orribile mistero di una figlia perduta, diventata qualcosa che lui non aveva la forza di guardare, in cui non voleva essere costretto a riconoscersi. I padri hanno paura che il futuro sia davvero in mano ai loro figli, paura che facciano da soli, che cambino strada e che la perdano. Mentre è esattamente quello che deve succedere. “Il figlio come un filo che deve entrare nella cruna della propria crescita. Il padre come un filo che va sfilato”, ha scritto il poeta Valerio Magrelli in “Geologia di un padre”, pubblicato da Einaudi, e in quella cruna non c’è spazio per entrambi. C’è spazio per il rimpianto, per quello che non si è capito, per quello che si è perduto crescendo e voltando le spalle ai padri per cambiare strada, per quello che non si è colto dei propri figli restando sulla collina dei padri, ma non per la sovrapposizione. Bisogna saper tramontare, ma anche avere il coraggio scanzonato e umile che ebbe il padre di Billy Elliot, che credeva di sapere tutto, che vedeva già quel figlio magro come un campione di hockey e si arrabbiò molto, ma poi seppe abbandonare la strada illuminata che aveva immaginato per il suo bambino: il ragazzino voleva fare il ballerino, bruciava di desiderio, era quello il suo codice dell’anima, e il padre per niente ricco e per niente colto, nel 1984, nell’epoca della grande crisi economica delle miniere inglesi, si indebitò e si fece umiliare per riuscire a offrirgli la possibilità di sostenere gli esami di selezione in una importante scuola di danza classica. Anche se soffriva immensamente nel sentire chiamare il suo figlio maschio Ballerina Boy, era riuscito a lasciarsi stupire da lui, ad accettare la sorpresa. Non erano sovrapposti, non erano amici, non si sentivano coetanei: erano padre e figlio, c’erano leggi fra loro, c’era il senso di un impegno, di una rabbia, della fatica necessaria per il riscatto di sé, di un desiderio da mettere alla prova. Fu quella l’eredità importante di Billy Elliot, che pure cambiò strada e spezzò il filo con suo padre, ma dal padre imparò cos’è la vita quando è davvero viva, senza pensare di vedersi risparmiato il dolore. “Cosa ti devo dire? – scrive Filippo nella lettera immaginaria a suo padre, mentre si sente addosso lo scontento dei suoi genitori per quel filo spezzato, per quel dottorato mai preso, nel romanzo di Paola Mastrocola – non hai nessuna colpa, hai fatto tutto bene, sei stato un bravo padre, sì. Hai sempre voluto il meglio per me. Ma forse è proprio questo, papà. Nessun genitore deve volere il meglio per suo figlio. E sai perché? Perché non lo sa. Non lo può sapere, come potrebbe? E’ Dio? Legge nella sfera di cristallo? No, è solo un genitore. E allora dovrebbe starsene a guardare e basta, in silenzio e con grande calma. Un po’ come si sta davanti al mare a guardare il mare. Cosa si fa davanti al mare? Si guarda il mare. Basta. Si accompagnano le onde con lo sguardo. Questo. Una per una”. Telemaco guarda il mare nell’attesa del padre, e così un padre dovrebbe guardare il figlio: come si guarda il mare. Accettando il mistero e la possibilità di una tempesta. Sfilandosi, a un certo punto, dalla cruna in cui passa l’età adulta. Resistendo alla tentazione di correre a sistemare tutto, e prendendosi le colpe, i silenzi, anche la distanza, essere “un’assenza sempre presente”. Pare che il mare, poi, riporti sempre indietro quello che vi si è gettato. Così a un certo punto ci si troverà in bocca una frase del padre, un gesto, la stessa diffidenza verso i ristoranti con menu troppo complicati, lo stesso abbandono alle cose che succedono, e si penserà: questi alberi piacerebbero a mio padre, questo libro lo lancerebbe contro il muro. E ci si ricorderà di avere avuto sempre un padre e di essere cresciuti anche grazie al conflitto con lui, alla sua disapprovazione, ai suoi: “Dove diavolo sei stato?” (ai miei tempi i padri non dicevano per nessun motivo: cazzo), alla percezione filiale della sua incapacità di capire fino in fondo. Anche di questo deve farsi carico un padre: accettare con orgoglio l’idea di sembrare superato, rigido, perfino un po’ patetico nelle proprie rivoluzioni o conservazioni da modernariato, nello sguardo sul mondo. Lasciare la possibilità che i figli sentano di essere andati più avanti, più lontano e da soli. Il padre supereroe, l’uomo più forte del mondo funziona con i bambini, poi bisogna accettare il viale del tramonto. Che può essere anche un posto pieno di soddisfazioni, ma non è più il centro della scena. Un giornalista americano, Justin Halpern, raccolse in un blog di grande successo e poi in un libro tutte le frasi di suo padre, un tipo bizzarro e brusco che non aveva intenzione di fare uno scambio generazionale e assomigliare al figlio ventottenne. “Non lo voglio il collegamento a Internet. So benissimo a cosa serve… Sì che lo so. E me ne sbatto se tutti i tuoi amici ce l’hanno. I tuoi amici si fanno anche delle acconciature da tossici, ma non per questo mi vedi correre dal barbiere”. Non è necessario rinunciare a Internet per permettere a un figlio di trovare la sua strada, basta saper tramontare.







Annalisa Benini

domenica 1 novembre 2020

Amare è Tutto


Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che da valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire.
Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici. La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciati per la paura della sofferenza. Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla. C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; l’amore non vuole avere; vuole soltanto amare.


H. Hesse

martedì 14 aprile 2020

Sono poveri compagni


Un pazzo è colui che continua a fidarsi; un pazzo è colui che continua a fidarsi 
nonostante la sua esperienza.  

Tu lo inganni...ed egli si fida di te; 
e tu lo inganni di nuovo...
ed egli si fida di te; e
tu inganni di nuovo lui...
ed egli si fida di te.  
Allora dirai che è uno sciocco...
non impara.  

La sua fiducia è tremenda; 
la sua fiducia è così pura che nessuno può corromperla.

Sii uno sciocco in senso taoista...
in senso Zen.  
Non cercare di creare un muro di conoscenza intorno a te.  
Qualunque esperienza ti viene...
lascia che accada...
e poi continua a farla cadere. 
Continua a pulire continuamente la tua mente; 
continua a morire al passato per rimanere nel presente... qui-ora...come se fossi appena nato...
solo un bambino.

All'inizio sarà molto difficile. 

Il mondo comincerà 
ad approfittare di te...lasciali fare. 
Sono poveri compagni.

Anche se vieni ingannato 
e ingannato 
e derubato...
e derubato...
lascia che accada...
perché ciò che è veramente tuo 
non può esserti rubato...
ciò che è veramente tuo nessuno può portartelo via.

E ogni volta che non permetti che le situazioni ti corrompano...quell'opportunità diventerà un'integrazione al tuo interno. 

La tua anima si cristallizzerà di più.


 OSHO

sabato 2 novembre 2019

L'amore che hai sempre sognato



Devi prenderti un momento alla volta, bambino.

Un respiro alla volta. 
Segui il cerchio del respiro, il suo sorgere 
e anche il suo cadere. 
Entrambi i movimenti sono preziosi.

Tutto passerà, vedi. Il sorgere del sole è sicuramente seguito dal tramonto. 
La vecchia pelle si perde. 
Le foglie cadono dall'albero e 
non sono meno belle nella loro caduta. 
Coloro che ami moriranno nella loro forma fisica e torneranno alla loro perfezione originale. 
Come ci ricorda Eckhart Tolle, anche il Sole morirà.

Cerchiamo sicurezza in luoghi in cui non la troveremo mai. 
Scappiamo dall'ansia, 
evitando quel divertente vuoto che vive nel nostro centro, 
provando a fuggire dal vivere.

Ti è stata venduta una bugia sull'amore, 
vedi: che dovevi esserne degno.

Fanculo l’essere degno.

L'amore non è qualcosa che può darti qualcuno. 
Non è qualcosa che devi chiedere, guadagnare o meritare.

Se ci riesci, se prendi un 10, se ottieni la promozione, 
se vinci la gara, non sarai amato di più. 
Devi scrollarti di dosso quest'illusione.

Non devi essere degno. 
Devi solo essere vivo e sei degno.

Sei integro anche da solo, e non sei mai solo, 
perché sei inseparabile dalle stelle, dalle montagne, 
dagli alberi fruscianti nel prato.

E segui il respiro mentre sale e scende. 
E fai spazio in te stesso per questi sentimenti a lungo trascurati. 
Impara a fidarti del corpo, dei suoi ritmi, 
del modo in cui cerca di proteggersi, della sua imprevedibilità, 
dei suoi sentimenti di insicurezza. 
Respirando nei punti doloranti, li rendi sicuri, 
dove una volta ti sentivi insicuro.

Sicuro anche di sentirsi insicuro; questa è libertà.

Amare anche la parte che sembra non amabile; 
questo è l'amore che hai sempre sognato, 
l'amore che non devi mai meritare.

Jeff Foster

giovedì 30 maggio 2019

“Kafka e la bambola”


Un anno prima della sua morte Franz Kafka visse un'esperienza insolita. Passeggiando per il parco Steglitz a Berlino incontrò una bambina che piangeva sconsolata: aveva perduto la sua bambola.
Kafka si offrì di aiutarla a cercarla e le diede appuntamento per il giorno seguente nello stesso posto.
Incapace di trovare la bambola scrisse una lettera, da parte della bambola, e la portò con se quando si rincontrarono.
"Per favore non piangere, sono partita in viaggio per vedere il mondo, ti riscriverò raccontandoti le mie avventure"...così cominciava la lettera.
Quando lui e la bambina si incontrarono egli le lesse questa lettera attentamente descrittiva di avventure immaginarie della bambola amata. La bimba ne fu consolata e quando i loro incontri arrivarono alla fine Kafka le regalò una bambola. Ella ovviamente era diversa dalla bambola originale, in un biglietto accluso spiegò..." i miei viaggi mi hanno cambiato".
Molti anni più avanti la ragazza cresciuta trovò un biglietto nascosto dentro la sua bambola ricevuta in dono. Riassumendolo diceva:
"Ogni cosa che tu ami è molto probabile che la perderai, però alla fine l'amore muterà in una forma diversa."

giovedì 21 febbraio 2019

"Sei stato il mio maestro"


Addio al giornalista e conduttore Rai, Gabriele la Porta. A dare l'annuncio è il figlio Michele su Radio Colonna, precisando che il padre si è spento il 19 febbraio scorso:

«In molti, forse, lo ricorderanno come il volto di Rainotte. Io lo ricordo perché era mio padre. Il mio dolcissimo papà. Il cuore del mio cuore. Nella logica, inevitabile, della vita e la morte, accetto il suo viaggio. L'ultimo. Eppure, il mondo, si è dissolto inesorabilmente. Come un abisso». 
«Sei stato il mio maestro. Il mio eroe. Il mio Re. Sono onorato d'esser stato tuo figlio. Sangue del tuo sangue. Mi auguro che tu sia stato fiero di me. Dei miei baci. Delle mie carezze. Dei miei pensieri, per te. Un giorno verrò a trovarti. Tu aspettami e lascia libero un posto accanto a te».
«Ciao papà, riposa la tua anima. Tuo figlio Michele».

martedì 2 ottobre 2018

L'hai amata, vero?


L’hai amata, vero?

Lui sospirò.

Come posso risponderti? Lei era matta, sorrise, perso in qualche ricordo.
Si passò una mano fra i capelli: Dio, se era tutta matta. Ogni giorno mi svegliavo accanto a una donna diversa, una volta intraprendente, l’altra impacciata. Una volta esuberante, l’altra timida. Era mille donne, lei. Ma il profumo era sempre lo stesso, inconfondibile. Era quella la mia unica certezza. Era il profumo dei viaggi che doveva ancora fare, mi diceva. 
Le chiedevo cosa volesse dire ma non me lo spiegava mai. Mi sorrideva e sapeva di fregarmi, con quel sorriso. Perché ti giuro che quando sorrideva io non capivo più nulla, amico. Non capivo più nulla. Non sapevo più parlare né pensare. Niente, zero. C’era all’improvviso solo lei.
Era matta, rise, tutta matta. A volte si perdeva a guardare un mappamondo o un quadro, ci volevano ore perché tornasse in sé. E quella sua mania di mettersi sempre i pantaloni… Non l’ho mai vista con una gonna, sai? 
A volte di notte piangeva. Dicono che in quel caso le donne vogliono solo un abbraccio. Lei no. Lei si innervosiva a starmi vicino in quei momenti. Si vestiva e stava in giardino tutta la notte, e guai a raggiungerla. Mi ordinava di lasciarla sola. La sentivo piangere, ancora oggi sono convinto che parlasse con qualcuno, in quelle notti terribili.
C’era qualcosa in lei, amico mio. Non so che cosa, ma non era una ragazza normale. C’era qualcosa in lei, o c’erano altre ragazze in lei, ancora oggi non te lo so dire. 
Non so dove si trova adesso ma scommetto che è ancora alla ricerca di sogni.
Era matta tutta matta.
Ma l’ho amata da impazzire.

Charles Bukowski

mercoledì 16 maggio 2018

E se avessi sbagliato tutto?


Cosa crede, la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? 
La platonica unione delle anime? 
Io la penso diversamente. 
Io credo che tu sia completo prima di cominciare. 
E l'amore ti spezza. 
Tu sei intero, e poi ti apri in due.

Piliph Roth, da L' Animale morente

domenica 1 aprile 2018

Le quattro leggi della spiritualità

In India insegnano "le quattro leggi della spiritualità".
La prima dice: "La persona che arriva è la persona giusta", cioè nessuno entra nella nostra vita per caso, tutte le persone intorno a noi, tutte quelle che interagiscono con noi, ci sono lì per un motivo, per farci imparare e progredire in ogni situazione.

La seconda legge dice: "Quello che succede è l'unica cosa che sarebbe potuta accadere." Niente, ma niente, assolutamente nulla di ciò che accade nella nostra vita avrebbe potuto essere altrimenti. Anche il più piccolo dettaglio. Non c'è un "se avessi fatto quello sarebbe accaduto quell'altro...". No....Quello che è successo era l'unica cosa che sarebbe potuta succedere, ed è stato così perché noi imparassimo la lezione e andassimo avanti. Ognuna delle situazioni che accadono nella nostra vita sono l'ideale, anche se la nostra mente e il nostro ego siano riluttanti e non disposti ad accettarlo.
La terza dice: "Il momento in cui avviene è il momento giusto." Tutto inizia al momento giusto, non prima non dopo. Quando siamo pronti ad iniziare un qualcosa di nuovo nella nostra vita, è allora che avverrà.
La quarta ed ultima: "Quando qualcosa finisce, finisce." Proprio così. Se qualcosa è conclusa nella nostra vita è per la nostra evoluzione, quindi è meglio lasciarlo, andare avanti e continuare ormai arricchiti dall'esperienza.
Penso che non sia un caso che stai leggendo questo, se questo testo è entrato nelle nostre vite oggi; è perché siamo pronti a capire che nessun fiocco di neve cade mai nel posto sbagliato...

domenica 24 dicembre 2017

Quel vento sei Tu


Qualche volta il destino assomiglia a una tempesta di sabbia che muta incessantemente la direzione del percorso. Per evitarlo cambi l'andatura. E il vento cambia andatura, per seguirti meglio. Tu allora cambi di nuovo, e subito di nuovo il vento cambia per adattarsi al tuo passo. Questo si ripete infinite volte, come una danza sinistra con il dio della morte prima dell'alba. Perché quel vento non è qualcosa che è arrivato da lontano, indipendente da te. È qualcosa che hai dentro. Quel vento sei tu. Perciò l'unica cosa che puoi fare è entrarci, in quel vento, camminando dritto, e chiudendo forte gli occhi per non far entrare la sabbia.

HARUKI MURAKAMI, Kafka sulla spiaggia 

martedì 11 aprile 2017

Se saprai starmi vicino

Se saprai starmi vicino, 
e potremo essere diversi, 
se il sole illuminerà entrambi 
senza che le nostre ombre si sovrappongano, 
se riusciremo ad essere “noi” in mezzo al mondo 
e insieme al mondo, piangere, ridere, vivere. 

Se ogni giorno sarà scoprire quello che siamo 
e non il ricordo di come eravamo, 
se sapremo darci l'un l'altro 
senza sapere chi sarà il primo e chi l'ultimo 
se il tuo corpo canterà con il mio perché insieme è gioia… 

Allora sarà amore 
e non sarà stato vano aspettarsi tanto.

Pablo Neruda

sabato 26 novembre 2016

L'eredità di Fidel Castro


...Parliamo degli aspetti positivi di Cuba. Cominciamo con l'istruzione.
«Il 100 per cento dei bambini va a scuola. Abbiamo istituti specializzati per i giovani handicappati, che sono circa 50 mila nel nostro paese».
Anche i giovani adulti possono riprendere gli studi.
«Sì, c'è un nuovo programma per quelli fra i 17 e i 30 anni. Hanno diritto a borse di studio e quelli che già lavorano continuano a percepire interamente il salario».
A Cuba c'è il maggior numero di insegnanti al mondo in rapporto alla popolazione.
«Il doppio che nel continente americano. In media, un professore ogni venti studenti. Solo la Danimarca è più avanzata di noi».
Voi utilizzate molto la radio.
«Sono convinto che gli 800 milioni di analfabeti esistenti oggi nel mondo potrebbero imparare a leggere e scrivere in meno di 5 anni grazie a questo tipo di programmi radiofonici che abbiamo messo a punto».
Cuba vanta un record anche nel campo sanitario.
«Abbiamo 70 mila medici per 11 milioni di abitanti. Il tasso di mortalità infantile, che era del 60 per mille prima del 1959, è sceso al 6,5 per mille. In America è il 7 per mille».
La vita media su quale età si aggira?
«È salita da 61 a 76 anni e speriamo di arrivare ben presto agli 80».
Cuba è famosa anche per i suoi "dottori" sparsi nel mondo.«Più di 3 mila medici, pagati dal governo, lavorano all'estero, la maggior parte in regioni molto remote che i loro colleghi occidentali sarebbero incapaci di raggiungere. Questo è quello che io chiamo il nostro capitale umano. I paesi occidentali, dove invece il capitale finanziario viene al primo posto, non potrebbero inviare tanti medici così lontano».
A Cuba non esiste lo sport professionistico.
«Lo sport è un diritto del popolo, un mezzo per migliorare le sue condizioni fisiche e abituarsi allo spirito di sacrificio. Noi possiamo vantare la più alta percentuale pro capite al mondo di medaglie olimpiche».
La pubblicità è proibita, come il divismo.
«Salvo per le campagne contro il fumo, non è consentita a Cuba. Il culto della personalità l'abbiamo bandito fin dai primi giorni della rivoluzione. Nessun nome di un leader vivente può essere utilizzato, ad esempio, per battezzare una scuola o una strada».
Non ci sono manifesti né statue di Castro.
«Nemmeno una. E neanche foto ufficiali».
La popolazione è coperta al 100 per cento da una rete di protezione sociale. E, cosa ancor più sorprendente per un paese socialista, l'85 per cento dei cubani ha una casa in proprietà.
«Nel nostro sistema socialista vi sono persone che ne possiedono anche più d'una, mai decine. L'alloggio non dev'essere un business».
Chi sono i più ricchi a Cuba?
«Gli agricoltori che vendono sui mercati privati e depositano i loro risparmi in banca a un tasso d'interesse dell'8 per cento. Ci sono anche artigiani che lavorano in proprio. E questo crea a volte delle gelosie».
Non ho visto armi da fuoco in circolazione.
«È vero. Gli atti di violenza qui sono rarissimi. Non rientrano nella nostra cultura. Questo dipende, io credo, dalla buona educazione della popolazione».

parte di intervista di Oliver Stone a Fidel Castro

martedì 15 novembre 2016

Lo Spirito Santo nella mente del laico


In una recente omelia, papa Francesco ha spiegato con accenti innovativi una figura fondamentale per i credenti ma che ha rilievo anche per i non credenti, il "perfetto sconosciuto" di San Paolo. Perché gli esseri umani possiedono facoltà di pensiero, di fantasia e di creatività.

"UN PERFETTO sconosciuto o addirittura un prigioniero di lusso", così ha detto papa Francesco durante l'Omelia pronunciata durante la messa nella cappella di Santa Marta.
...Chi è costui? Fa parte del nostro mondo? O soltanto di quello dei credenti? Il tema è fondamentale per gli uni ed anche per gli altri ed è lo Spirito Santo che fa parte del mistero trinitario. Quello che per primo ne ha parlato è stato il tredicesimo apostolo, Paolo di Tarso, che in una sua lettera alla comunità di Efeso fece per l'appunto un cenno a questa terza persona trinitaria. Prima d'allora praticamente non se n'era mai parlato, gli apostoli avevano Dio come Padre e Gesù come Figlio.
Paolo di Tarso non conobbe mai Gesù, non fu tra i suoi dodici apostoli, ma come tale egli disse se stesso e gli altri dissero lui. Non aveva mai conosciuto Gesù, in uno dei suoi viaggi di commercio cadde da cavallo e svenne e durante lo svenimento, mentre lentamente si riaveva, vide un'immagine affascinante da tutti i punti di vista che la sua mente ancora non totalmente riavutasi interpretò come l'immagine di Gesù. Di fatto fu il tredicesimo apostolo e sostanzialmente fu il vero fondatore della religione cristiana.
A proposito dello Spirito Santo ne troviamo appunto una menzione negli Atti degli apostoli dove sono raccolte tutte le memorie, le lettere, le comunicazioni tra gli uni e gli altri. Paolo scrisse molte lettere alle varie comunità cristiane che man mano si formarono. Non risulta che abbia lasciato altri libri e tanto meno vangeli, ma quelle lettere furono quasi sempre fondamentali per la costruzione della religione e in realtà ne costituirono il corpo dottrinario.
Dello Spirito Santo parla appunto per la prima volta nella sua Lettera agli Efesini. Papa Francesco fa riferimento ad essa nella sua omelia cui abbiamo accennato. Ecco il brano che merita citazione (Atti degli apostoli 19.1/8): "Paolo incontra a Efeso alcuni discepoli che credevano in Gesù e fa loro questa domanda: "Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?". E loro, dopo essersi guardati un po' stupiti, gli hanno risposto: "Non abbiamo nemmeno sentito dire che esista uno Spirito Santo". Erano dunque discepoli buoni ma non avevano mai sentito quel nome. Paolo riprende subito il dialogo domandando quale battesimo avessero ricevuto. E i discepoli: "Quello di Giovanni". Così Paolo spiega loro che quello era un battesimo di penitenza, di preparazione. Ascoltando Paolo i discepoli di Efeso si fecero battezzare nel nome del Signore Gesù. Si legge negli Atti: "E non appena Paolo ebbe imposto loro le mani discese su di loro lo Spirito Santo e si misero a parlare in lingue e a profetizzare". Dunque è un cammino: il cammino di conversione, ma mancava il battesimo e poi l'imposizione delle mani perché venisse lo Spirito Santo".
Papa Francesco si è soffermato come abbiamo visto molto su questo colloquio tra Paolo e gli Efesini riportato dagli Atti. Ma poi continua lui a commentare: "Se noi domandiamo a tante brave persone: chi è lo Spirito Santo per te? E che cosa fa e dov'è? L'unica risposta sarà che è la terza persona della Trinità. Esattamente come hanno imparato a catechismo. Certo sanno che il Padre ha creato il mondo perché la creazione è attribuita al Padre. E sanno anche che il Figlio è Gesù che ci ha redenti e ha dato la vita per tutti noi. Dunque riguardo allo Spirito Santo sanno soltanto che è la terza persona della Trinità, ma se gli chiedi che cosa fa? Ti rispondono che è lì. E così si fermano i nostri cristiani".
Segue la spiegazione di Francesco: "Lo Spirito Santo è quello che muove la Chiesa, è quello che lavora nella Chiesa, nei nostri cuori; è quello che fa di ogni cristiano una persona diversa dall'altra ma da tutti insieme fa l'unità. Dunque lo Spirito Santo è quello che porta avanti, spalanca le porte e ti invia a dare testimonianza di Gesù".
Questo è quel "perfetto sconosciuto" di cui in realtà dopo la lettera di Paolo agli Efesini quasi nessuno ha più parlato in termini dottrinali. Francesco, come in tante altre occasioni, ha rotto il silenzio e ha fornito nuova materia alla sua Chiesa di missione di acculturare nel modo giusto i missionari e coloro che ne seguiranno la predicazione.
A questo punto, leggiamo sull'Osservatore Romano del 10 maggio scorso, papa Francesco ha messo in guardia da un pericolo: quando non siamo all'altezza di questa missione dello Spirito Santo e non lo riceviamo così, si finisce per ridurre la fede ad una morale, ad un'etica. E si pensa che adempiere a tutti i comandamenti sia abbastanza ma niente di più. E così ci diciamo: questo si può fare, questo non si può fare, fino a qui sì, fino là no, cadendo nella statistica e in una morale fredda. Ma, ha ricordato il Papa, la vita cristiana non è un'etica, è un incontro con Gesù Cristo e chi ci porta a quell'incontro è proprio lo Spirito Santo.
Questo è il "perfetto sconosciuto" che Francesco ci fa conoscere benissimo. Paolo ha aperto la questione, ma Francesco dopo duemila anni la porta di gran lunga più avanti.

Questo tema interessa moltissimo i cristiani ma interessa moltissimo anche i non credenti. Vi domanderete probabilmente il perché e nella seconda parte di questo articolo cercheremo di spiegarlo.

Tutte le persone che appartengono alla nostra specie hanno un "me" dentro al proprio "sé" e tutti hanno anche un "noi". Siamo una specie socievole che cerca gli altri poiché ne ha bisogno.
Gli animali, dai quali la nostra specie deriva, sono anch'essi socievoli nei modi più vari e diffusi. Il "noi" animalesco è strettamente connesso al sesso e alla procreazione. Non hanno invece il "me" poiché la loro mente (nei limiti in cui di mente si può parlare) non è riflessiva, non si vede vivere, non si vede invecchiare. Il "noi" fa parte dei bisogni primari, il "me" non esiste salvo per alcuni animali nobili e addomesticabili: il cavallo, il cane, numerose qualità di scimmie, i gatti; e pochissimi altri. Questi, se escono dalla selvatichezza, accettano o addirittura cercano un capo, un punto vivente di riferimento del quale eseguono le parole d'ordine e perfino comunicano sentimenti di affetto e di attaccamento quasi sempre ricambiati.
Ma torniamo alla nostra specie, che ha come segnali di distinzione la capacità di vedersi vivere, la volontà consapevole, la memoria di quanto è accaduto a lui, alla sua famiglia e addirittura alla propria specie come storia documentata nei vari modi con i quali la scienza coglie le tracce del passato.
La scienza studia anche l'universo in cui viviamo, le forme di energia che lo pervadono e ci pervadono; insomma il quadro dove anche la nostra vita si svolge e le forze astrali che la dominano.
La nostra specie ha un suo spirito. Definirlo non è facile. Lo spirito è un elemento immateriale? Così lo concepisce una conoscenza elementare, ma è sbagliato. Non lo si vede con gli occhi, non lo si ascolta con l'udito, non lo si percepisce col tatto. Sfugge ai cinque sensi dei quali il nostro corpo dispone, ma è un'energia e l'energia non è immateriale, la si misura, sviluppa campi magnetici, onde che la trasportano, leggi di gravità che determinano l'attrazione reciproca dei corpi astrali, velocità cosmiche del micro e del macro e mille altre cose ancora. Vi sembra immateriale tutto questo? Forse quella parole è usata male. Forse in tutto l'esistente, quello che noi definiamo cosmo, non c'è nulla di immateriale, salvo...
Salvo i pensieri, le fantasie, la creatività. Il Dio delle religioni, quello è immateriale perché deriva da un nostro pensiero creativo. È un'invenzione, una favola che ci raccontiamo e se non ce la raccontassimo quel soggetto che chiamiamo Dio non esisterebbe.
Ecco dunque che cos'è lo spirito: la nostra capacità di inventare pensando, di creare pensando, di raccontarci pensando.
Denis Diderot disse una frase diventata celebre in uno dei suoi dialoghi, si chiama: Le Rêve de D'Alembert. Era seduto su una panchina nei giardini di Palais Royal e pensava le cose più strane che gli venivano in mente e poi fuggivano via, un attimo dopo altri pensieri gli arrivavano e poi dileguavano. E mentre questo giro di pensieri frequentava la sua mente, i suoi occhi guardavano in fondo al giardino dove alcune "ragazze di vita" acchiappavano i clienti e li portavano a far l'amore in alcune pensioni esistenti apposta sotto i portici di quel giardino. Dopo un po' uscivano e accalappiavano altri clienti.
Come i miei pensieri, dice a questo punto Diderot, e qui la celebre frase: "Mes pensées, ce sont mes catins". I miei pensieri sono le mie puttane. L'ho citata varie volte questa frase perché mi sembra una definizione perfetta dello spirito. Mes pensées, ce sont mes catins. Immateriale e materialissimo insieme. Lo spirito è così e il suo modo d'essere non l'ha definito la mente. La mente è immateriale e materialissima perché è il cervello che la crea. La crea e la modifica di continuo. Un organo del corpo in contatto con tutti gli altri organi, sostanze che lo modificano, realtà che cambia e con essa cambia la mente. Questa è la nostra specie, quando l'animale divenne bipede e sollevò la testa verso il cielo. E vide sé stesso vivere.
Dunque lo spirito c'è, noi l'abbiamo. È condizionato dalla mutabilità del corpo, ma a sua volta lo condiziona. E si domanda se, dopo la morte, esiste un aldilà. A volte dice no, a volte dice sì e in questo caso cerca di immaginare che cosa sia quell'aldilà. Così è nato Dio che inevitabilmente morirà quando la nostra specie, come tutte le cose che nascono, scomparirà.
Ma se la mente non si pone affatto il problema dell'aldilà, Dio da quella mente non viene neppure immaginato, neppure inventato. La morte, la sorella morte, quella sì, tutti noi sappiamo che verrà e al momento decisivo ci toccherà la spalla e tutto sarà finito. Se tutte le menti pensassero in questo modo Dio non esisterebbe per nessuno. Ma un'altra domanda si pone: chi ha creato l'Universo in cui viviamo? Una risposta scientifica spiega come è fatto ma non come è nato e come morirà. Si può pensare che sia eterno? La parola eternità evoca la categoria del tempo. Ecco un'altra domanda: che cos'è il tempo? La nostra specie pensa il tempo e lo applica a tutte le entità viventi e perfino a quelle non viventi. Il tempo è Dio? È un'ipotesi che la mente è in grado di formulare. I poeti li fondarono e li hanno fatti diventare un mito.
I miti sono molti e ci aiutano a vivere. Uno è l'amore, rappresentato da Eros, signore dei desideri. L'altro è il tempo pensato dalla mente. Le Parche tessono la vita col compito di tagliare il filo di quel tessuto. Le Parche dunque sono quelle che chiamiamo destino. Oppure caso. Sembrano opposte queste due parole ma ad esaminarle con attenzione sono eguali, esprimono lo stesso concetto che la cultura classica chiamava il Fato, alla cui legge dovevano obbedire non solo gli uomini ma perfino gli Dei. Dunque il tempo e il fato. Chi li ha creati? Noi, li abbiamo creati noi. E quindi siamo noi i creatori della nostra vita e delle sue leggi. Ogni specie ha le proprie, ma solo la nostra pensa a noi stessi ed anche agli altri. Questo è lo spirito e forse dovevano sentirlo anche i nostri antenati come fece Paolo di Tarso quando interrogò i cristiani di Efeso. Anche il suo Spirito Santo inventava la vita nel modo con cui il tredicesimo apostolo la inventò.

Eugenio Scalfari