Aldo Masullo, filosofo, novantenne pensatore napoletano, professore emerito di Filosofia morale alla Federico II, esita solo un minuto prima di rispondere a tutto quello che avremmo voluto sapere e non avevamo mai osato chiedere ad un filosofo: «Che cos'è la filosofia?» «Di filosofia esistono innumerevoli definizioni, sia classiche che contemporanee. Io, per semplicità, vorrei cominciare col dire che la filosofia è l'esercizio che ogni uomo è chiamato a fare dalla sua umanità per comprendere meglio non solo se stesso, ma il rapporto tra sé e il mondo, tra sé e gli altri. Quindi la filosofia, anche quando si traveste da grande messa in scena teatrale (come ogni grande costruzione metafisica) rimane sempre un'antropologia, una ricerca sull'uomo».
Messa così, sembrerebbe che la speculazione filosofica sia un semplice interrogarsi sull'umano. Sappiamo invece che l'atto del filosofare implica una certa attitudine alla trascendenza. Ad andare «oltre» l'uomo.
«Ricordo che il da poco dimessosi Benedetto XVI in un suo scritto giovanile sosteneva che non è possibile comprendere il senso del divino senza comprendere l'uomo. In realtà questa attenzione all'uomo costituisce il problema più forte e autentico della filosofia, perché se è vero che nulla si può capire se non si parte dall'uomo, è pur vero che il tema dell'uomo è difficilissimo. Perché nulla è più difficile da capire di ciò che ci è vicino. E che cosa c'è di più vicino di noi stessi? Quindi penso che anche la storia della filosofia sia il tentativo di individuare uno o più metodi di approccio all'uomo stesso. Ma già nell'affermare ciò si propongono molti problemi: in che modo intendiamo l'uomo del quale vogliamo interessarci?». Masullo fa una pausa, e beve un sorso di caffè: «Quest'uomo sono io che sto bevendo la mia tazza di caffè quasi fossi solo nell'universo, senza altre persone che mi chiedono conto di ciò che faccio? Oppure l'uomo è l'orizzonte entro il quale si muovono tutte le faccende della vita personale, estetica, religiosa? Quindi il problema di comprendere l'uomo è il problema di comprendere la vita, che costituisce il processo stesso della realtà in cui noi ci troviamo a vivere. E la difficoltà oggettiva di entrare in contatto con questo tema ribadisce la difficoltà di ‘‘capire'' ciò che ci è più vicino».
Una difficoltà che per molti confina con la inutilità della filosofia.
«Vale la pena di ricordare che già Aristotele sosteneva che la filosofia non serve a nulla, ma che proprio per questo è indispensabile. Questa affermazione va sciolta dalla sua ambiguità: se una cosa non serve proprio a niente, come si fa a dire che è indispensabile o necessaria? Certo, la filosofia non ci è utile per mettere in piedi un affare o costruire un edificio, e tuttavia serve veramente perché pone nell'animo dell'uomo la consapevolezza della sua vita. La vita di noi umani si distingue da quella degli altri esseri viventi perché noi sappiamo di vivere, e qui vorrei introdurre una mia particolare visione: io cito spesso il verbo greco páskein, una delle cui radici è path. Páskein significa ‘‘vivere'', ma mentre altri verbi greci indicano il ‘‘vivere fisicamente'', páskein indica il ‘‘vivere'' in senso transitivo. Indica cioè la vita come capacità di provare, avvertire, prendere consapevolezza. Vivere l'esperienza. E infatti path è anche radice di pathos, cioè patimento, ma non nel senso di dolore, bensì in quello più ampio del provare. Da path, da pathos, viene ciò che io chiamo ‘‘paticità'', la mia chiave di lettura di ciò che è proprio dell'uomo. Paticità è vivere provando, vivere assaporando».
Tutti gli uomini provano, tutti gli uomini assaporano. Siamo dunque tutti filosofi a nostra insaputa?
«La parola filosofia viene da sofos, che è colui che annusa, che assaggia, che sa distinguere i sapori e gli odori. Dalla capacità di distinguerli e di metterli in relazione nasce la logica, che è il pensiero nella sua forma più sviluppata. Non si può tentare di conoscere l'uomo se non partendo dalla presa d'atto dell'esperienza quotidiana».
Ciò che in termini filosofici si chiama, se non erro, fenomenologia.
«La fenomenologia è stata enunciata e tematizzata da Husserl, ultimo grande pensatore del '900. Ma, mentre la fenomenologia husserliana ha una sua ipoteca cartesiana (il sempre citato cogito ergo sum che mette al riparo da tutte le metafisiche e da ogni altro prodotto ideologico, interessandosi esclusivamente al pensare, alla mera coscienza in atto, insomma a una ‘‘logica della conoscenza'') teniamo presente che, in epoca appena precedente a Husserl, un pensatore antimetafisico come Dilthey aveva posto al centro della sua riflessione il concetto di erlebnis, il sostantivo che viene dal verbo erleben, che non è altro che l'equivalente tedesco del greco páskein. È l'atto di vita, il provare, il sentirsi vivere, il cercare le distinzioni. E la prima metà del '900 è occupata appunto da Heidegger, il quale in certo modo costruisce nelle sue ricerche giovanili l'incrocio tra l'ispirazione husserliana e il concetto diltheyano: da qui si svilupperà il nucleo originario del suo pensiero, che poi prenderà le distanze dal rigore critico di una pura e semplice fenomenologia antropologica. Ciò che gli interessa non è l'uomo, ma l'essere: ci si allontana di nuovo dal pensiero critico».
Mentre lei, Masullo, viene dal materialismo critico del suo maestro, Cleto Carbonara.
«La mia esigenza critica, il richiamo a non lasciarmi imprigionare da grandi scenari che con l'astratto ragionamento si possono costruire, mi porta anche a una valutazione del ‘‘sapere''. Se ciò che muove tutto è il momento patico, la vita vissuta, non possiamo esimerci dal riconoscere che anche il sapere ha una radice patica. E se ciò è vero non possiamo presumere nessuna universalità a priori, ma dobbiamo ammettere che il mondo degli uomini è un mondo di molte paticità, tante quanti sono gli uomini, e di tanti saperi (patici) quanti sono gli uomini. Essere filosofo è dunque riconoscere la propria paticità (il mio vissuto è mio, e solo mio) e in ciò cercare gli strumenti e le occasioni per ottenere dei rapporti fra le paticità».
Può fare un esempio di questi rapporti?
«La necessità della tolleranza è il primo che mi viene in mente. Io vedo il mondo in un certo modo, e non posso pretendere che un altro lo veda come me, né lui può pretenderlo da me. E ciò produrrebbe una catastrofe se non trovassimo un accordo sulla base di ciò che ci è comune, come può esserlo il dolore. Qualcosa di simile la diceva già Voltaire sulla tolleranza nel Dizionario filosofico. Sì, avremmo bisogno di un po' di illuminismo anche oggi...».
Siamo partiti da Aristotele, e siamo arrivati a Voltaire.
«Sì, e ora possiamo finalmente intendere a fondo il detto aristotelico: la filosofia non serve a nulla, ma aiuta ciascuno di noi a capire la propria solitudine, e la necessità di accordarsi alle solitudini altrui. Io, insomma, posso dirle il dolore che provo a questo dito che ora mi fa male, ma non riesco a farglielo sentire. È la condizione tragica dell'uomo: il pensare gli fa capire il bisogno di coinvolgere l'altro, ma non ne sopprime l'impossibilità. E allora, rispondendo a una sua precedente domanda, posso dire che sì, ogni essere umano è filosofo in quanto comincia a capire l'esigenza di conoscere se stesso. Dai tempi dell'oracolo di Delfi, la filosofia è il tentativo di rispondere a questa raccomandazione».
Antonio Fiore
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