C’è una pagina precisa in cui lo Svedese, gigante buono, uomo giusto, padre affettuoso di una figlia diventata mostro, terrorista invasata e assassina, capisce di non essere bastato e si arrende. “Le ho dato tutto quello che potevo, tutto, tutto, le ho dato tutto. Ti giuro che le ho dato tutto”, e piange con il fratello al telefono, piange come non avesse altro scopo nella vita che quel pianto. In “Pastorale Americana”, di Philip Roth, la vita perfetta di un uomo perfetto, americano ottimista dalle migliori intenzioni, viene sfregiata e scoperchiata dall’enorme, tragico fallimento di padre: non ha saputo vedere, accompagnare, non è riuscito a far diventare sua figlia l’immagine perfezionata di se stesso. Gli sembrava giusto e naturale, un’unica strada diritta e illuminata, ma non è andata così. Colpa sua? Colpa delle cose insensate che accadono? Colpa del Vietnam? Colpa di quel bisogno di uccidere il padre, anche, di sputare addosso a una strada con le luci, a un’eredità morale che a un certo punto sembra pesante, ridicola, sbagliata, mostruosa perfino. Bisogno di gettare via le cose, disprezzare i pensieri, le aspettative ricevute, trovare il colpevole di quello che non va: eri mio padre, hai sbagliato tutto, non hai visto niente. Come le formiche, che vedono solo i pochi centimetri di mondo che hanno davanti, così i padri devono prendersi sulle spalle la colpa di essersi distratti, non avere voluto guardare la verità dei figli e del futuro. Eri mio padre, e non hai capito che odiavo leggere il Financial Times con te a dodici anni, che non volevo andare a Bristol sette estati di fila a imparare l’inglese, che il dottorato a Stanford era per te, non per me, pensa il protagonista dell’ultimo romanzo di Paola Mastrocola, “Non so niente di te” (Einaudi), ventenne del nuovo Millennio, che quindi non ha più intenzione di uccidere il padre, non ha nessun complesso di Edipo ma ha bisogno di una via di fuga, vuole scendere da una vita che hanno apparecchiato per lui, certi che fosse la migliore, la più libera e moderna e appagante (con le migliori intenzioni, come lo Svedese di Philip Roth, agisce questo padre avvocato e fiero, con incrollabile fiducia nelle borse di cuoio e nei giornali economici, a sua volta perfezionamento dell’immagine del proprio padre, fiero notaio): “Un figlio che non continua il padre spezza una linea. La rompe. E’ un elemento di rottura, un figlio così, si può dire? L’ho pensato spesso. Ma adesso non lo penso più. Adesso che mi sono portato dietro queste pecore lo so, e vorrei tanto dirtelo, papà, rassicurarti: quella linea spezzata continua, solo che continua da un’altra parte, in un altro modo”. Le linee vanno spezzate, a un certo punto, o comunque curvate, bisogna farle scartare di lato, anche per permettere a un padre di sentirsi padre, e non corteggiatore, amico, specchio, guardia del corpo, bozzolo che risparmi al figlio il dolore di esistere. “Non la volevo, io, una vita come la tua”, è una frase dolorosa da ascoltare, per un padre, ma utile a riportare un po’ d’ordine, a dividere il mondo in due: non siamo nemici, ma siamo due persone diverse, abitiamo due diverse colline, e uno guarda verso il sole che sorge e per un po’ ha bisogno di dare le spalle all’altro (e anche pensare: che razza di stronzate), l’altro deve restare a guardare e aspettare (anche pensando: che razza di stronzetto). Padri e figli: a uno il compito di indicare una strada e anche, scrive lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati in quest’ultimo libro Feltrinelli, “Il complesso di Telemaco, genitori e figli dopo il tramonto del padre”, il dovere di unire il desiderio e la legge, e ai figli il compito di entrare in conflitto o accettare l’eredità del padre, magari non subito, magari accettarla dopo il conflitto, anche senza accorgersene. Succede, di dire: mai come mio padre, e poi un mattino ritrovarsi a leggere le cartine geografiche come le legge lui, o mettere i tappi a tutte le penne e finire l’acqua lasciata nei bicchieri dai figli, invece di buttarla, e urlare, con il senso di un’offesa morale: non si lascia l’acqua nei bicchieri, non si lasciano le penne senza tappo.
Telemaco guarda il mare, scrive Recalcati, sperando che torni a Itaca Ulisse, il padre, a ristabilire la legge, e non lo aspetta come un rivale da uccidere ma come una speranza per il futuro: dopo anni di evaporazione dei padri, i figli aspettano di nuovo il ritorno di una Legge, di un padre, un adulto e non un adolescente e intanto cercano di inventarsi un avvenire. Un adulto che sappia prendersi cura, trasmettere un desiderio e dire anche: va bene, adesso appoggiati qui, ma la strada è la tua, e tra poco il mondo sarà tuo, io saprò farmi da parte, tocca a te figlio, non starò per sempre a mettere i tappi alle tue penne. Secondo Recalcati sono stati i padri, spesso, a uccidere i figli, a trasformarli in lamentosi prigionieri di un’immensa libertà. “I padri non lasciano il posto, non sanno tramontare”.
“Noi siamo la prima generazione di padri nella storia ad avere elaborato una complessa ed altamente egoistica strategia di sopravvivenza attraverso la captatio benevolentiae dei nostri figli – ha scritto Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera, nel suo pamphlet Rizzoli, ‘Contro i papà’ – Fingiamo di farlo per il loro bene, ma in realtà lo facciamo per il nostro. Li teniamo attaccati a noi, dipendenti da noi, per evitare che si ribellino”. I padri (e le madri) costruiscono un bozzolo di seta di possibilità, giustificazioni, desideri esauditi, camicie stirate e spostano il fuoco: poiché non vogliono mai in nessun caso diventare nemici, aiutano i figli a trovare un nemico (Polito ha scritto anche che i padri sono diventati i sindacalisti dei loro figli). La politica, il precariato, la disoccupazione, la società ingiusta. Che sollievo avere dei figli che non odiano il padre ma solo il mondo intero! I padri sono ancora seduttori, morirebbero se non lo fossero, disperatamente giovani (nel senso di disperatamente tesi verso la giovinezza), young adult persi dentro ai fatti loro, che cancellano il senso di colpa cercando di provvedere al meglio ai bisogni dei figli, per evitare che provino rabbia da mancanza di cose e la imputino al padre. I padri sono così desiderosi di piacere ai loro figli che non possono sopportare l’idea di provocare in loro un’arrabbiatura, passare in un istante dall’immagine di adorabile papino a quella di solito vecchio stronzo (che pure è un’idea di padre molto rivalutata: gli psicanalisti dicono che molte delle sofferenze dei pazienti sono dovute proprio a quest’assenza). “Non la volevo, io, una vita come la tua”, è una pugnalata al cuore, ma soprattutto un attentato alla vanità, per un padre che ha corteggiato i suoi figli, raccontato favole di notte, mostrato grande modernità e attitudine alla tecnologia, cercato e pagato le scuole migliori, maledetto i professori, regalato la luna e risolto i problemi. Anche scelto di fare il padre stay-at-home (non qui, non esageriamo: in Inghilterra) e rivendicare quell’eroismo, abnegazione e cura che di solito spetta alle madri. E’ entrato in competizione con le madri per l’amore dei figli, le ha scavalcate in dolcezza e lasagne al forno. Ma allora perché Recalcati (con lui anche Claudio Risé e Eugenio Scalfari) parla di evaporazione del padre, di Telemaco in attesa davanti al mare, quando i padri non sono mai stati così attenti, vicini, condividenti, carezzevoli, sbaciucchianti, amorosi, presenti perfino alle riunioni con i professori e alle lezioni di nuoto? Perché si sono confusi con i figli. Fanno scambio di generazioni, “nell’epoca in cui tutto appare uguale a tutto”, sono angosciati e smarriti (gli insegnanti confidano, umiliati, che la confusione peggiore la fanno i genitori, i pediatri ripetono e scrivono sui blog che sono stanchi delle domande cretine e angosciate dei padri): non sanno lasciare andare i figli, li considerano un’estensione di sé e vogliono vivere anche la loro vita, con la scusa disordinata di spianare il terreno e risparmiare viaggi dolorosi nella realtà, ma con la segreta voglia di continuare a essere vivi, specchiandosi nelle possibilità della giovinezza e credendo di conoscerne già tutte le ombre e le vertigini e di poterle guidare verso porti sicuri. “Forse è proprio questo, papà – dice Filippo, il protagonista del romanzo di Paola Mastrocola – Dovreste essere curiosi, molto curiosi dei vostri figli. Morire dalla curiosità di vedere come andrà a finire. Invece siete sempre così scontenti, così incontentabili. Sembra che conosciate già tutto. Non vi lasciate sorprendere. Peccato”. I padri non possono sapere granché e sono incontentabili, perché sentono la mancanza di desiderio di figli sazi attorno ai quali la famiglia si modella e balla, ma hanno paura delle sorprese, almeno quanta ne aveva lo Svedese, l’uomo perfetto e vitaminico, il sogno americano, di trovarsi di fronte all’orribile mistero di una figlia perduta, diventata qualcosa che lui non aveva la forza di guardare, in cui non voleva essere costretto a riconoscersi. I padri hanno paura che il futuro sia davvero in mano ai loro figli, paura che facciano da soli, che cambino strada e che la perdano. Mentre è esattamente quello che deve succedere. “Il figlio come un filo che deve entrare nella cruna della propria crescita. Il padre come un filo che va sfilato”, ha scritto il poeta Valerio Magrelli in “Geologia di un padre”, pubblicato da Einaudi, e in quella cruna non c’è spazio per entrambi. C’è spazio per il rimpianto, per quello che non si è capito, per quello che si è perduto crescendo e voltando le spalle ai padri per cambiare strada, per quello che non si è colto dei propri figli restando sulla collina dei padri, ma non per la sovrapposizione. Bisogna saper tramontare, ma anche avere il coraggio scanzonato e umile che ebbe il padre di Billy Elliot, che credeva di sapere tutto, che vedeva già quel figlio magro come un campione di hockey e si arrabbiò molto, ma poi seppe abbandonare la strada illuminata che aveva immaginato per il suo bambino: il ragazzino voleva fare il ballerino, bruciava di desiderio, era quello il suo codice dell’anima, e il padre per niente ricco e per niente colto, nel 1984, nell’epoca della grande crisi economica delle miniere inglesi, si indebitò e si fece umiliare per riuscire a offrirgli la possibilità di sostenere gli esami di selezione in una importante scuola di danza classica. Anche se soffriva immensamente nel sentire chiamare il suo figlio maschio Ballerina Boy, era riuscito a lasciarsi stupire da lui, ad accettare la sorpresa. Non erano sovrapposti, non erano amici, non si sentivano coetanei: erano padre e figlio, c’erano leggi fra loro, c’era il senso di un impegno, di una rabbia, della fatica necessaria per il riscatto di sé, di un desiderio da mettere alla prova. Fu quella l’eredità importante di Billy Elliot, che pure cambiò strada e spezzò il filo con suo padre, ma dal padre imparò cos’è la vita quando è davvero viva, senza pensare di vedersi risparmiato il dolore. “Cosa ti devo dire? – scrive Filippo nella lettera immaginaria a suo padre, mentre si sente addosso lo scontento dei suoi genitori per quel filo spezzato, per quel dottorato mai preso, nel romanzo di Paola Mastrocola – non hai nessuna colpa, hai fatto tutto bene, sei stato un bravo padre, sì. Hai sempre voluto il meglio per me. Ma forse è proprio questo, papà. Nessun genitore deve volere il meglio per suo figlio. E sai perché? Perché non lo sa. Non lo può sapere, come potrebbe? E’ Dio? Legge nella sfera di cristallo? No, è solo un genitore. E allora dovrebbe starsene a guardare e basta, in silenzio e con grande calma. Un po’ come si sta davanti al mare a guardare il mare. Cosa si fa davanti al mare? Si guarda il mare. Basta. Si accompagnano le onde con lo sguardo. Questo. Una per una”. Telemaco guarda il mare nell’attesa del padre, e così un padre dovrebbe guardare il figlio: come si guarda il mare. Accettando il mistero e la possibilità di una tempesta. Sfilandosi, a un certo punto, dalla cruna in cui passa l’età adulta. Resistendo alla tentazione di correre a sistemare tutto, e prendendosi le colpe, i silenzi, anche la distanza, essere “un’assenza sempre presente”. Pare che il mare, poi, riporti sempre indietro quello che vi si è gettato. Così a un certo punto ci si troverà in bocca una frase del padre, un gesto, la stessa diffidenza verso i ristoranti con menu troppo complicati, lo stesso abbandono alle cose che succedono, e si penserà: questi alberi piacerebbero a mio padre, questo libro lo lancerebbe contro il muro. E ci si ricorderà di avere avuto sempre un padre e di essere cresciuti anche grazie al conflitto con lui, alla sua disapprovazione, ai suoi: “Dove diavolo sei stato?” (ai miei tempi i padri non dicevano per nessun motivo: cazzo), alla percezione filiale della sua incapacità di capire fino in fondo. Anche di questo deve farsi carico un padre: accettare con orgoglio l’idea di sembrare superato, rigido, perfino un po’ patetico nelle proprie rivoluzioni o conservazioni da modernariato, nello sguardo sul mondo. Lasciare la possibilità che i figli sentano di essere andati più avanti, più lontano e da soli. Il padre supereroe, l’uomo più forte del mondo funziona con i bambini, poi bisogna accettare il viale del tramonto. Che può essere anche un posto pieno di soddisfazioni, ma non è più il centro della scena. Un giornalista americano, Justin Halpern, raccolse in un blog di grande successo e poi in un libro tutte le frasi di suo padre, un tipo bizzarro e brusco che non aveva intenzione di fare uno scambio generazionale e assomigliare al figlio ventottenne. “Non lo voglio il collegamento a Internet. So benissimo a cosa serve… Sì che lo so. E me ne sbatto se tutti i tuoi amici ce l’hanno. I tuoi amici si fanno anche delle acconciature da tossici, ma non per questo mi vedi correre dal barbiere”. Non è necessario rinunciare a Internet per permettere a un figlio di trovare la sua strada, basta saper tramontare.
Annalisa Benini